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Formaggi, il sapore dei pascoli

Il formaggio oggi fa tendenza. L'aver assaggiato il marchigiano Ambra di Talamello o il campano Caciocavallo Podolico o il Ragusano, diventa quasi uno status symbol culturale o, se vogliamo stare coi piedi per terra, semplicemente dimostra una conoscenza gastronomica di non trascurabile consistenza. Insomma, un biglietto da visita pari a quello di un esperto di musica classica o di teatro greco o di letteratura gialla o di quant'altro vi passa per la mente.

Dissertare della suadenza di un lombardo Bagoss, della lunghezza aromatica di un Fiore Sardo, dell'erborinatura di un Gorgonzola piccante e paragonarli, tutti insieme, ad un Abondance francese, ad un Queso Manchego spagnolo, ad uno Stilton inglese, fa di una persona un personaggio, pur nel piccolo della sua cerchia di amici e conoscenti. Ma tant'è, la ricerca del proprio io passa anche attraverso questi sentieri. E a noi, cultori della cultura materiale e popolare, questo aspetto non ci dispiace affatto. Se siamo intelligenti, non ci resta che fare un po' di autoironia e continuare a sbocconcellare il nostro formaggio, abbinandolo ad un vino di razza e all'altezza dell'incontro.

Popolare, in un formaggio, può significare all'inizio la sua tecnologia di produzione, condotta con mezzi essenziali e spesso di fortuna, se pensate ai caci di monte. Per il degustatore, popolare può significare l'odore dei formaggi, anzi la complessa evoluzione olfattiva della sua maturazione. Si tratta di percezioni intriganti, lattee e burrose nel prodotto fresco, grasse e pungenti nel prodotto stagionato. Ma non solo. Le sensazioni olfattive ci riconducono al territorio, nel caso in cui il latte di partenza è crudo, non pastorizzato. Pensate alle percezioni di muffa, di terra bagnata, di sottobosco fradicio, che accompagnano il profilo sensoriale di molti formaggi delle Alpi, ovvero del Nord Italia, e raffrontateli con i profumi di erbe aromatiche secche, di pepe e di cappero, di salino e di mandorla dei prodotti caseari del Sud e delle isole.

E poi le paste così diverse: crude al Nord, cotte e filate al Sud. Ce n'è da scrivere un trattato. Soffermiamoci - in primo luogo - sul "Ragusano", questo splendido formaggio prodotto sui monti Iblei con latte di razza Modicana: i profumi del pascolo te li ritrovi tutti, provenienti dalle specie foraggere aromatiche, tra le quali in prevalenza il timo selvatico.

Il Ragusano è a pasta filata dura ed ha una forma parallelepipeda a sezione quadrata con al centro alcuni solchi dovuti al passaggio delle corde di sostegno durante la prima fase di stagionatura. Infatti, le forme maturano a coppie, legate fra di loro e appese ad un palo, nelle fresche cantine. Con un peso oscillante tra i 12 e i 16 chilogrammi, ha una pasta compatta e dolce da giovane, piccante e saporita se stagionato. Su questo caciocavallo e sul suo territorio è da citare quel sorprendente libro fresco di stampa, "Il Ragusano. Storie e paesaggi dell'arte casearia", fotografato con l'occhio attento e appassionato di Giuseppe Leone e scritto da diversi autori, Francesco Amata, Giuseppe Licitra e Diego Mormonio.

A proposito di storia dei formaggi, interessante è il legame tra un formaggio del sud e uno del nord. Il Tumazzu, quell'antico formaggio di Modica che la sapienza popolare siciliana ci regalava un tempo a piene mani e che ora ci lesina con estrema parsimonia, tant'è che risulta ormai una leccornìa introvabile, ebbene il Tumazzu mi ricorda la Toma (si pronuncia Tuma) piemontese. Simili nel nome e anche nella forma, un pò meno nella tecniche di fabbricazione a causa dei climi diversi, sono la prova evidente di una radice comune che si perde nella notte dei tempi, radice che la cultura materiale da una parte, e la cultura colta dall'altra, hanno conservato nei secoli.

Scorrono le immagini dell'interessante video, promosso dalla Regione Sicilia nel 1999, sulla preparazione artigianale, direi casalinga, del Tumazzu e a me viene in mente la vecchia zia che scaldava il latte nel paiolo per la produzione della Toma, in cucina, sulla stufa a legna. Una tometta fragrante nelle prime settimane, sapida e piccantella dopo un mese o due, pronta anche per la grattugia nei mesi successivi. C'è però un altro pensiero che mi ritorna, un po' stravagante se vogliamo, ma verosimile: quando liguri e piemontesi se ne andarono in Sicilia con Garibaldi, avranno assaggiato il Tumazzu? Questo formaggio così familiare nel nome, oltre a rifocillare gli stomaci, poteva diventare uno strumento di riconciliazione e di unione.

Se la storia la "facessero" i formaggi, certamente prenderebbe un'altra piega. I formaggi hanno però una loro storia. Quella del Tumazzu si perde e si confonde con quella del Canestrato siciliano, come attestano antichi documenti del XV secolo.

Il Canestrato, prodotto in tutto il territorio dell'isola con latte vaccino o misto con latte ovino, è a pasta dura con struttura compatta. La crosta presenta nettamente i segni tipici del canestro di giunco dove per tradizione viene sistemata la cagliata. Usato soprattutto come formaggio da tavola, non disdegna la cucina in alcuni piatti, quali la "pasta 'ncaciata" e i "vruoccoli affogati". Il Canestrato può anche essere consumato freschissimo, appena la cagliata si è compattata, ovvero quando precipita sul fondo della tina (si dice che fa la "tuma"). Questa tuma, consumata fresca, in Piemonte, Liguria, Calabria prende il nome di Giuncata. Figlio del giunco è anche il Pecorino siciliano. Le sue vicende storiche, infatti, ci conducono molto indietro nel tempo, quando il formaggio era soprattutto ottenuto da latte di pecora, poiché quello di mucca era consumato principalmente fresco per i fabbisogni della famiglia.

Lo si può consumare freschissimo e profumato di latte sotto forma di Tuma non ancora salata, o più avanti come Primo Sale; se preferite un cacio più pieno e accattivante provatelo dopo quattro mesi di stagionatura come vuole la Dop, o, meglio ancora, dopo un anno. Personalmente lo preferisco senza i grani di pepe nella pasta: comunque, è sempre un gran buon mangiare. L'abbinamento con i vini permette una bella carrellata: il Corvo bianco e il Regaleali rosato con la Tuma, il Cerasuolo di Vittoria col Primo Sale, il Marsala vergine e il Passito di Pantelleria con le forme più stagionate. Col latte di pecora si fa inoltre il Piacentino, che ricorda il primordiale nome dato al grana fin dal Medioevo. Probabilmente il nome "grana" nasce dal fatto che questo formaggio veniva consumato molto stagionato per cui la pasta tendeva a "sgranarsi" in bocca, come succede attualmente per il Parmigiano reggiano e il Grana Padano. Le stesse sensazioni le ritroviamo, oltre che nel Piacentino, anche nel Bra duro e nel Vezzena stagionato.

Non si possono dimenticare le Provole, quella prodotta dai casari dei Nebrodi in provincia di Messina e di Enna, e quella fatta sui monti delle Madonie. Ed infine la Vastedda della valle del Belice, uno dei pochissimi formaggi italiani a pasta filata prodotto con latte di pecora intero. Dolce e squisito in purezza, fantastico condito con olio della Nocellara del Belice ed un pizzico di origano, oltre che nel timballo di maccheroni. E le ricotte? Da ricordare in particolar modo la ricotta infornata dal color ambra scuro sulla sottile crosta. Non ci rimane altro da fare che allestire a questo punto un bel carrello di formaggi siciliani, un plateau, come direbbero in Francia. Da servirsi dopo un pranzo dal ragionevole numero di portate, in modo che il nostro palato possa ancora apprezzarli pienamente.

E i commensali, accomiatandosi dalle vostre mense, dopo un assaggio di ricotta e di tuma di pecora, di caciocavallo ragusano e pecorino stagionato, pronunceranno certamente la celebre frase dell'imperatore Ottaviano Augusto "Io non sapevo d'esservi tanto amico" rivolta al patrizio romano che si scusava della cena piuttosto sobria.

Armando Gambera

Testi e foto © La Sicilia Ricercata

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